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ambientazione, blog, fuffa, racconti, Roma, Scrittura, Tracey Emin, Trento
Vorrei dire una cosa.
Che per quante inspiring quotes tu possa trascriverti, per quanti consigli di scrittura di autori importanti tu possa leggere, alla ricerca del la, del punto di partenza per cominciare tu a scrivere, alla fine il tuo percorso sarà solo tuo. E sarà allo stesso tempo diverso e uguale a quello di tutti gli altri. Tanto che ti troverai a pensare e dire esattamente le stesse cose che hanno già detto gli altri, ma è solo quando sei arrivato a concepirle tu che hanno davvero un senso (il che, mi pare, rende un po’ inutile l’incessante scorrere di citazioni fuori contesto prese da libri a caso di scrittori che, ma guarda te!, hanno scritto di scrittura).
Dico questo perché ho aperto il Diario con l’intenzione di renderlo un meta-racconto, un racconto della mia scrittura, che poi non è che un modo di rimuginare ancora sulla bellezza di scrivere, senza scrivere davvero. E invece mi rendo conto di non star proprio tenendo fede alla mia mission, perché nel frattempo, non so se sia una congiunzione degli astri, un evento transitorio che capita ogni mille, duemila anni, ma la scrittura ha cominciato a fluire.
E ha cominciato a fluire, per quello che riesco a capire, quando si sono verificate due condizioni, di cui la prima esterna e la seconda interna alla scrittura stessa.
La prima ha a che fare con l’avere un luogo prestabilito in cui scrivere, che poi è uno dei primi consigli che si danno a chi vuole produrre qualcosa, di qualsiasi tipo: e cioè una piccola stanzetta che funge da studio, con i libri, la luce giusta (o, per meglio dire, la penombra giusta) e un’enorme scrivania di legno su cui ammucchiare fogli di appunti, quaderni, articoli strappati dai giornali e scartoffie varie. Un posticino in cui se necessario posso chiudermi e che è più un luogo mentale che fisico. E cioè entro lì e tutto resta fuori. Entro lì e posso dirmi: Bene, Daria, finche sei qui, pensi solo alla scrittura. Quando sei stanca o non hai voglia, non entrarci nemmeno. Gioca al Witcher, leggi, fai pirouettes, ma là fuori.
E insomma, questa cosa finora pare reggere.
La seconda ha riguardato invece la risoluzione di un confitto tutto personale, a cui accennavo qualche post fa parlando dell’ambientazione: e cioè il fatto che, se una storia provo ad ambientarla a Roma, dove pure mi muovo ormai con un certo agio, sembra morire asfissiata ancora prima di cominciare. Ma se la ambiento, anche solo vagamente, con il nome di una via, nei luoghi della mia adolescenza, che sono per me fonte continua di conflitti ma anche pieni di riferimenti sentimentali e affettivi, le storie si fanno scrivere. Cioè riesco a vederle nello spazio; e, poiché le vedo, riesco anche a viverle.
Questo mi affascina molto, perché mi restituisce il valore del legame con una terra che ho sentito la necessità di rifiutare per poter pensare di mettermi a scrivere, e perché mi fa intravedere uno spiraglio di qualcosa che ancora ribolle, ed è materia viva, qui da qualche parte dentro di me.
E quindi mi viene in mente che tutti gli scrittori a un certo punto dicono che la scrittura viene fuori da un’emozione, da un sentimento, ma in effetti non avevo mai capito bene come funzionasse, questa faccenda.
Mi è sempre sembrato un po’ patetico l’utilizzo del proprio vissuto personale, delle proprie storie tristi (che tutti, a scavare bene, le abbiamo da qualche parte) per macinare pagine, e che la letteratura, l’arte, non sia mai stata questa cosa qui, se non molto di recente (penso sempre a Tracey Emin, quando faccio questo discorso), ma che semmai abbia usato la propria vita come trampolino per guardare più lontano, per rivolgersi di più verso l’esterno e raccontare con più precisione l’esperienza umana.
Eppure, ai grandi scappa ogni tanto questa frase, che vuol dire tutto e il contrario di tutto, ma che in realtà mi pare descrivere un processo ben preciso, che mi sembra di star scoprendo in queste ultime settimane. E cioè imparare a spingere i tasti giusti (mi immagino questa operazione in modo molto fisico, come un dito su un pianoforte), a esercitare la pressione giusta, perché dalle cose successe, a cui ancora pensiamo, venga fuori il succo. La ragione reale per cui una situazione, una persona, un pensiero ci sono rimasti così impressi nel tempo, al di là delle contingenze, delle circostanze, della realtà. L’essenza.
E’ come (e perdonatemi se sembra fuffa, probabilmente lo è) un infliggersi un dolore controllato, non scavare tanto da esserne annichiliti, ma quanto basta per tirarne fuori qualcosa di buono, come direbbe Sorrentino.
E mi pare di capire che una volta che impari a fare questa cosa qui, che provi il gusto di questa sensazione, poi fai fatica a smettere. Ed è solo tramite questo processo, al di là degli elementi che metti insieme e mescoli nel calderone del racconto, che riesci a comunicare davvero qualcosa a quello che ti legge.
Ora, come minimo, con questa tirata aulica mi sono chiamata la sfiga e stasera mi metterò davanti alle due robette che mi sta piacendo portare avanti e non riuscirò più a scrivere una riga.
E comunque ieri c’è stata la seconda Lecture di Baricco, sullo storytelling, ed è abbastanza piacevole da sentire, anche se mi sono sembrate più evidenti delle osservazioni che si facevano nei commenti di qualche post fa.
In ogni caso è molto gradevole e suggestiva. La consiglio.