Ne avevo parlato mesi fa: mi era capitato davanti questo articolo del Corriere della Sera e avevo sentito una certa attrazione per Paolo Cognetti, per la vita che conduce, ma soprattutto per il tipo di ragionamenti che fa e le parole che usa per descriverli, e mi ero promessa di leggerlo. Solo che poi ho deciso di concentrarmi sull’università, e di non leggere nient’altro fino perlomeno alla fine della sessione di esami.
Intanto che studiavo, il giovanotto ha vinto tutti i Premi Strega possibili e io, che già normalmente mi disinteresso di premi e di dinamiche social-letterarie, mi sono chiusa gli occhi e le orecchie e ho evitato ogni interferenza, commento e retropensiero sul suo libro e la sua scrittura.
Il fatto è che l’ho amato. Non scomodo spesso l’amore, ma in questo caso non riesco davvero a trovare una parola diversa. Ho passato i sei giorni in cui l’ho letto emozionata un po’ come quando ero bambina, gustandomi il momento in cui sarei potuta tornare anche io alla montagna di Grana. Ho letto lentamente, per non perdermi nulla e per non consumarlo troppo in fretta, e davvero con il cuore, avvinta dalle vite di cui mi si raccontava come fossero la mia. E ho l’impressione che questo sia potuto succedere perché è stato scritto esattamente nella stessa maniera – lentamente, e con il cuore.
La storia è di quelle che non si possono raccontare senza rovinare il piacere della lettura: si può dire che è la storia di un’amicizia che comincia da bambini, tra boschi, alpeggi e torrenti all’ombra del Monte Rosa, e che passa la prova del tempo e della distanza. E’ anche una storia di uomini e montagne, non nel senso più comune di grandi imprese e cime da raggiungere, ma del rapporto vero degli uomini con la terra in cui nascono o si ritrovano a vivere, da cui fuggono o che non sanno lasciare. Che è poi ciò che lo rende sì un libro sulla montagna, ma soprattutto un libro sugli uomini e sui modi che trovano per stare al mondo.
C’è da dire intanto che davvero poche volte un libro ha raccontato con così tanta precisione il mondo che vedo io, senza superficialità né stereotipi, e ponesse gli stessi interrogativi senza cercare risposte di comodo. Qualcosa di questo genere non poteva, per via di cose, venire dall’estero, e non poteva venire dalla generazione prima della mia. In effetti, mi sembra cogliere questo tempo di sradicamento non solo fisico – nel senso che sfuggiamo tutti dai luoghi in cui siamo nati e cresciuti per andare a cercare altrove qualcosa che non sappiamo cos’è, ma che lì siamo convinti di non poter trovare, per rimanerne poi in genere delusi – ma soprattutto culturale, in cui cerchiamo di portare a termine il lavoro dei nostri padri, e cioè abbattere tutto ciò da cui veniamo per far spazio alla modernità. Solo che la modernità in cui speriamo non arriva, e quando arriva non porta più la ricchezza e la comodità che credevamo, e ciò che ci ritroviamo davanti adesso è poco più che macerie e decadenza.
Non era solo assenza di decoro: c’era un certo disprezzo per le cose, un certo gusto nel maltrattarle e lasciarle andare in malora, che stavo imparando a riconoscere anche a Grana. Era come se questi posti avessero il destino segnato e la manutenzione non fosse che una fatica inutile.
Ripartire dall’estrema periferia, dell’Italia come del mondo, sembra davvero essere l’unico modo per ripensare il futuro, che visto dalla città appare grigio, cupo, senza speranza. In questo senso credo di aver aspettato per un po’ di leggere un libro di questo genere, e che fosse necessario. Risponde a una necessità comune: di ricominciare a immaginare il futuro, ma in modo diverso da quello che abbiamo imparato, con un’attenzione nuova a quello che eravamo, alla famiglia da cui veniamo. Alla terra che abbiamo ereditato e a coloro che la popolano.
Cominciai a capire un fatto, e cioè che tutte le cose, per un pesce di fiume, vengono da monte: insetti, rami, foglie, qualsiasi cosa. Per questo guarda verso l’alto, in attesa di ciò che deve arrivare. Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è più niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte.
Poi c’è la lingua. Paolo Cognetti scrive esattamente nel modo in cui i romanzi dovrebbero essere scritti oggi: in lingua corrente, senza fronzoli né metafore ardite, senza cercare di ingannare il lettore con sperimentazioni strampalate che rendono la lettura faticosa, quando non sgradevole. Cercando con cura la parola giusta per esprimere ciò che si vuole dire e, potendo scegliere, usando quella più gentile possibile. Chiama con il loro nome gli attrezzi da lavoro, le piante e gli animali del bosco, le parti di cui è fatta una casa. Ma poi non ha paura di chiamare bestie le bestie, fiumi i fiumi e montagne le montagne, quando è giusto farlo. Il risultato è di una pulizia e chiarezza rare, e lascia la sensazione che chi scrive non sappia solo scrivere, ma anche pensare bene. Va dritto per la sua strada, raccontando la propria storia dall’inizio alla fine, senza farsi distrarre dall’ansia o dalla necessità di apparire.
– Qual è il Grenon?
– Questo. Per noi è la montagna di Grana.
– Tutte queste cime insieme?
– Ma sì. Non diamo nomi alle cime qui. E’ questa zona.